Mi chiamo Amir. Sono originario del Niger. Da due anni vivo in Italia e da tre giorni sono bloccato in una stanza fatta di materassi al confine con la Francia. Il telefono segna le otto ma fuori è già buio. Anche qui dentro la luce è fioca, è fredda: è la cosa che più mi manca. A casa mia, anche la mattina presto c’è una luce da non crederci. Un volontario mi ha dato dei sacchetti di plastica. Mi ha detto di infilarli nelle scarpe, sopra le calze, che aiutano, almeno per il primo chilometro. Sorrido. Ho passato gran parte della mia vita a camminare senza scarpe. Mi piaceva andare in giro a piedi nudi, sentire il terreno, sentire i granelli di sabbia tra le dita. Al confine con la Francia sono 15 chilometri. 50.000 passi con un sacchetto di plastica nelle scarpe. Dicono che aiuta. Almeno per il primo chilometro.

Alle nove di sera a Bardonecchia ci sono dieci gradi sottozero. Ogni respiro produce dense nuvole umide. È troppo buio per vederle, ma il freddo del buio se ne frega, e ti entra in bocca come una lama. Camminiamo da un’ora. Il cellulare dice che abbiamo percorso due chilometri. Mi avevano informato dei rischi. Il freddo, la neve, il buio, la stanchezza. Ho ascoltato tutti. Mi hanno dato biscotti, guanti, una sciarpa e due cappelli. Ho preso tutto. Cinque chilometri nella neve non possono essere peggio di quello che ho già passato, pensavo. Ma mi sbagliavo. Il viaggio è appena cominciato e la montagna sembra un muro di cristallo inespugnabile. Ad ogni passo che affondo nella neve il mio cervello mi implora di tornare indietro. Non immaginavo che la neve potesse essere più insidiosa nel deserto.

«Ti piace il calcio?» una domanda qualunque, per rompere il silenzio. Da circa un’ora gli stessi unici tre rumori: la neve friabile sotto le scarpe; il respiro affaticato; il tac metallico di una fibbia dello zaino. «Che domande, certo che mi piace il calcio». Fa una pausa, solenne, una scusa per fermarsi e prendere fiato, poi mi guarda con un mezzo sorriso: «Stai parlando con il miglior centrocampista di tutto il Senegal». Malik l’ho conosciuto sul treno, prima di arrivare a Bardonecchia, e da lì abbiamo proseguito il viaggio insieme. «Te invece si vede che non hai il fisico» mi prende in giro. Ha un paio d’anni più di me e una determinazione che mi ha spinto a seguirlo nel viaggio anche se è poco più di uno sconosciuto. È in Italia da quasi tre anni ma gli manca la sua terra, la sua casa, la sua lingua. È questo che lo ha spinto a partire, ad affrontare una traversata di sei ore, di notte: vuole parlare la sua lingua, vuole ascoltare parole e suoni familiari. Io no. Io sono in viaggio perché in Italia non c’era posto per me. Scappo perché non mi hanno accolto. Tutto qui, nessuna illusione.

A guardare la mappa sembra uno scherzo: una lingua di terra che divide due paesi. Ora sei di qua, ora sei di là. Di qua mi chiamano “migrante”, di là divento un “migrateur”. Malik cammina davanti a me e io metto i piedi sulle sue impronte in modo da non affondare troppo nella neve. Le mie scarpe sono completamente fradice da non so più neanche quanto. Guardandomi Malik mi ha detto: «Vado avanti io, tu metti i piedi esattamente sulle mie orme». Sulla cartina la distanza tra Italia e Francia sembra molto piccola. Sono in viaggio da poche ore, ma mi sembra di camminare da sempre. La cosa peggiore è non sapere quanto durerà ancora e quanto resisterò. No, mi correggo, la cosa peggiore è il freddo. Malik si ferma per guardare la mappa. Vedo la sua espressione accigliata illuminata dalla luce dello schermo del cellulare. Poi mi guarda e mi dice: «L’abbiamo passata, siamo a Névache». Ci metto qualche secondo prima che il mio cervello intorpidito dal freddo colga l’informazione: abbiamo superato la linea che separa Francia e Italia. Poi è tutto molto veloce: vedo delle luci che puntano contro di noi, sento qualcuno che ci intima di fermarci e dei cani che abbaiano. Sento le gambe che corrono incespicando nella neve alta e sento i passi di Malik, che si allontanano nella direzione opposta alla mia.

Adesso – adesso – ho capito cos’è il buio. Il mio corpo mi prega di fermarmi; le mie gambe parlano prima della mia mente, e cedo nella neve. Non oppongo neanche resistenza, assecondo la forza di gravità, cado. Adesso – adesso – posso dire di sapere cos’è il caldo della mia terra, ora che ho conosciuto il freddo. Il freddo che ti obbliga a muoverti, ma ad ogni movimento lui trova nuovi spiragli per entrare più in profondità. Poi una voce maschile in lontananza. È mio padre. Mi dice: «Amir, disgraziato, mettiti le scarpe quando esci!». Vorrei alzarmi e andare con lui, ma dalla mia gola non esce niente. Sento solo freddo. Un tocco gentile mi scuote. Una voce di donna chiama qualcuno, sta chiedendo aiuto. Capisco quello che dice, parla la mia lingua. Allora era vero, io e Malik abbiamo passato il confine: siamo in Francia. Ce l’abbiamo fatta. Avviene tutto in fretta: vengo trascinato nella neve, un corpo caldo mi sorregge e mi spoglia. Una coperta pesante mi avvolge. I piedi, invece, non li sento più. colgo due voci che discutono: lei è agitata, continua a ripetere le parole “reato” e “aiuto umanitario”. L’uomo tace. Accende il motore. L’ultima cosa che vedo prima che si chiuda lo sportello sono le mie scarpe rovesciate sulla neve.

Mi chiamo Jean-Michel, vivo a Puy Saint-André da 37 anni, ma nelle ultime settimane mi sono spostato a Briançon. Da 12 giorni faccio il volontario, faccio quello di cui c’è bisogno, quello che riesco. Principalmente preparo qualcosa di caldo per chi arriva, per chi resta, per chi se ne va. Faccio quello che posso. La regola della montagna dice che tutte le persone in pericolo devono essere messe in salvo. Io vivo tra queste montagne da 37 anni, è stata una scelta ovvia, naturale, essere qui ora. Sento una macchina sterzare sul selciato fuori dal rifugio. È strano, in programma non c’era nessun gruppo in arrivo. Ultimamente sempre più migranti decidono di mettersi in cammino durante la notte, spesso da soli. Abbiamo attaccato dei cartelli sulla via per metterli in guardia dal pericolo e dal freddo, ma il desiderio di passare il confine sembra più forte della paura. Una voce di donna mi chiama e vengo percorso da una scossa di adrenalina: ne hanno trovato un altro. Vivo. Faccio un passo verso l’uscita, mi blocco. Non voglio sapere in che condizioni lo troverò. Non voglio sapere se è solo e se ha perso compagni durante il viaggio. Non voglio scoprire che l’unica cosa che posso fare per lui è offrirgli qualcosa di caldo e un nuovo paio di scarpe – inadatte – con cui si rimetterà in cammino. Respiro. La regola della montagna dice che tutte le persone in pericolo devono essere messe in salvo. È una scelta naturale, ovvia, essere qui ora.